DEFINITIVAMENTE LOLA

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Succhio avidamente il latte dal seno di mamma accanto ai miei fratelli e sorelle. Una volta terminate le operazioni, mi sdraio al sole: la vita è proprio bella!

Osservo la natura verde e splendente, il panorama abituale, la mia famiglia devota, che posso chiedere di più?

Trascorre il tempo nel più completo abbandono alla rassicurante consuetudine, finché un giorno…

Mamma era andata a caccia con il nostro padrone di casa che a sera torna solo. I miei fratelli e io gli saltelliamo intorno chiedendo notizie della nostra genitrice, ma lui ci sposta con un piede e, irato come mai lo abbiamo visto, si ritira brontolando chissà che nella sua stanza da letto.

Noi siamo affamati e lo manifestiamo con uggiolii inconsulti che, anziché alimenti, ci procurano rimproveri maneschi.

La notte scorre sui nostri corpi ammucchiati in cerca del calore che, di solito, ci assicurava mamma. La mattina corriamo incontro al nostro umano nella speranza di ricevere un po’ di cibo, invece siamo introdotti nel baule dell’auto che parte rabbiosa.

Corriamo su strade sconosciute, ci allontaniamo sempre più dai nostri

ricordi più cari ai quali abbaiamo mesti addii.

Ora l’auto è ferma, il baule si apre, noi vogliamo uscire, ma le nostre zampette sono ancora troppo corte per il salto necessario, così alziamo i musi ad annusare un signore sconosciuto che ci osserva.

“Sono cinque, io non li posso tenere, quindi glieli ho portati da sopprimere.”

“La legge non consente la soppressione di animali sani, mi spiace…”

“Beh, allora io glieli lascio: faccia un po’ lei…”

“Vedrò di sistemarli in un modo o nell’altro… Cos’hanno, un paio di mesi?”

“Sì, più o meno,” risponde il nostro umano.

Pur avendo seguito attentamente il dialogo, non abbiamo compreso né di chi stanno parlando né di che cosa. Pertanto dimeniamo le code e chiediamo cibo, cibo, cibo per favore.

Il trasferimento dal baule a una gabbia molto spaziosa ci fa ben sperare, e, in effetti, di lì a poco ci vengono offerti acqua e un pasto niente male.

Così inizia la nostra nuova vita con i miei fratelli e sorelle che se ne vanno alla spicciolata e che mi lasciano completamente sola dopo pochi giorni dal nostro arrivo.

Il veterinario che mi segue – ho appreso ieri che si tratta di un dottore degli animali – è gentile e non si scorda mai di me, ma non ha tempo né per condurmi all’aperto né per giocare, così mi sento abbandonata, e la depressione inizia a procurarmi qualche problema.

Oggi non ho voglia di giocare, non ho voglia di mangiare, ho solo voglia di dormire. Me ne sto stesa con il muso sulle zampe anteriori e aspetto non so neppure io che cosa. Un viso giovane mi osserva attraverso le sbarre, io lo guardo con occhi tristi e, quando una mano si allunga per farmi una carezza, non reagisco, lascio che tutto accada. È stata forse la mia tristezza oppure doveva andare così, ecco dunque che vengo estratta dalla gabbia, indosso un guinzaglio e me ne vado da quella prigione dorata insieme al mio salvatore.

“Mi chiamo Federico e d’ora in poi sarò il tuo compagno. Vediamo un po’ che nome posso darti. Lilli? No, troppo comune; Prudence? Uhm, in effetti, fa un po’ schifo; Maggie? Questo non è male, non trovi? Allora vada per Maggie!”

Maggie mi pare più adatto a una micia, ma il nome non è particolarmente importante.

Giungiamo in una villetta a schiera con un fazzoletto di giardino, dove vengo sistemata. Accanto alla porta d’ingresso della casa fa bella mostra di sé una magnifica cuccia dotata di cuscino imbottito di piume.

“Io sono un cane da caccia e cerco di fare il mio dovere in ogni occasione,” spiego a Federico che ha terminato ora di abbaiare i suoi rimproveri per la nevicata di piume da me provocata.

Ho scoperto che sono una cagnetta esuberante, e il giardino mi sta proprio stretto, così di tanto in tanto cerco di fuggire dal cancello per farmi qualche provvidenziale sgroppata nel circondario.

Ma un giorno Federico mi carica in macchina e torna alla prigione da cui mi aveva prelevata.

“Le ho riportato la cagnetta. Non riesco a gestirla: è troppo esuberante! Morde tutto ciò con cui viene in contatto, scava buche enormi in giardino, fugge ogni qualvolta trova uno spiraglio, abbaia incessantemente. Guardi, non me la sento proprio di tenerla. Mi spiace perché mi ci ero già affezionato!”

Come? Federico mi abbandona così? È impossibile! Mi aveva promesso amore eterno. È dunque questo l’amore degli umani?

La gabbia che mi aveva ospitato prima dell’interludio con Federico ora è occupata da un cagnolino, e io devo dividere con lui il poco spazio disponibile.

I giorni tornano a scorrere lenti, tristi e tutti uguali. Il mio umore continua a peggiorare tanto che non ho neppure appetito e spesso lascio la mia porzione di cibo all’amico piccino.

Preoccupato dal mio dimagrimento, il veterinario che mi ospita ha trovato un altro possibile capo branco per me: Orietta.

È una signora di mezza età, un po’ tonda ma gioviale, e io mi affeziono subito.

La casa non è grande, di giardini neppure l’ombra, ma Orietta ha molto tempo disponibile che trascorriamo a fare lunghe passeggiate in città o nel giardino pubblico proprio di fronte a casa.

Il mio nuovo nome è Pinga, e non so neppure io se mi piace, ma, come ho già affermato, non è questo l’essenziale nella vita di una cagnolina.

La casa in cui abito mi sta molto stretta, e così i guai che combino sono sempre inversamente proporzionali alla vastità dell’ambiente.

Orietta è una signora molto paziente e me lo ha dimostrato in diverse occasioni: per la distruzione di un guanciale, per la sparizione consecutiva di quattro ciabatte, due scarpe e uno stivaletto molto saporito, per il saccheggio del frigorifero lasciato inavvertitamente socchiuso (solo sette volte), per la demolizione dell’isolamento in sughero della porta d’ingresso e per altre cose che ora non ricordo.

Contando sulla disponibilità della mia amica umana, ieri ho ingoiato il suo anello di brillanti (brillava molto ed era bellissimo, così non ho proprio resistito e ho voluto assaporarlo).

“Questa è la goccia che fa traboccare il vaso,” sbraita Orietta battendomi sul muso con un giornale.

Io resto di stucco: non era mai accaduta una cosa simile, ma la mia indole affettuosa mi spinge a saltare intorno alla mia amica nel tentativo di riconquistarne l’amore.

Il guinzaglio mi stringe la gola, e noi usciamo per una passeggiata. Sono tranquilla perché so che, al rientro, tutto sarà come prima della mia ultima marachella.

Camminiamo speditamente e, strano, non visitiamo i soliti paraggi, ma stiamo andando in una direzione a me sconosciuta.

Orrore! Siamo giunte al solito ambulatorio veterinario, entriamo e: “Dottore, Pinga ha ingoiato un anello molto prezioso che, tra l’altro, è un ricordo di mia madre. Che cosa si può fare per recuperarlo?”

“Bisogna solo attendere che esca con le feci, signora, salvo che la cagnetta non presenti dei disturbi del tratto digestivo, nel qual caso occorre intervenire al più presto.”

“Allora, dottore, io gliela lascio finché recupereremo l’anello, poi vedremo…”

“Ma signora, io non ho gabbie libere al momento…”

“Non so proprio che cosa dire. Io Pinga non posso più tenerla! Durante la sua breve permanenza, la mia casa è stata semi distrutta, e io non me la sento proprio di continuare in questo modo. Vuole che le racconti che cosa ha combinato in un mese? Forse è meglio di no, lei ha da fare e io devo tornare a sistemare un po’ la casa: stasera arriva mia sorella con i nipoti, e non posso proprio presentarle l’orribile spettacolo…”

Oh, no! Un altro abbandono! Ma che cosa ho fatto di male per meritarmi un trattamento di questo genere? Sono stipata in una gabbia con altre due cagnoline ancora più tristi di me. Ci raccontiamo le nostre vicissitudini e lamentiamo la nostra cattiva sorte.

La gabbia è molto stretta per noi tre che dobbiamo vivere ammucchiate. Anche il cibo che riceviamo viene spesso rovesciato per mancanza di spazio, cosicché nessuna di noi mangia a sufficienza.

Finalmente Clotilde, la più piccola, viene adottata e, dopo tre giorni anche Lara se ne va.

La solitudine per me è peggiore di qualsiasi mancanza di spazio, e io ululo tutto il giorno la mia disperazione, finché un mattino si affaccia una cucciola umana che punta il dito verso di me e: “Mamma, voglio quello!” dichiara.

“Ma tesoro,” risponde la madre contrariata, “quello non è un cucciolo, non vedi che è un cane già adulto?”

“No signora,” puntualizzo, “non sono ancora adulta, anche se sono una cucciola un po’ cresciuta.”

“Io lo voglio lo stesso,” insiste la piccola umana.

Drizzo le orecchie e mi chiedo se questa sarà finalmente la volta buona. Speriamo!

Vengo estratta dalla gabbia, esaminata, battezzata Emily e trasportata nella mia nuova abitazione.

Sono felice, sì, abbastanza felice, ma non mi entusiasmo come le prime volte, non si sa mai che anche questa nuova occasione vada sprecata!

Giungiamo in una villetta con un vasto giardino. È bello qui, potessi restarci per sempre!

Sono introdotta in un locale a piano terra, dove mi rinchiudono. Non ci sono suppellettili, tranne un tavolo e una sedia di paglia mezzo sfondata.

Avendo bisogno di liberare la vescica, raspo alla porta per uscire, ma nessuno si accorge della mia richiesta, così sono costretta a servirmi di un angolo.

Cibo e acqua non si vedono fino a sera, quando la bambina e la mamma mi portano un po’ di pane inzuppato in brodo di verdura e una ciotola di acqua. Sono affamata e non faccio complimenti, ma raccomando ai miei nuovi amici di procurarmi pranzi un tantino più sostanziosi.

Mentre dialoghiamo, le due si avvedono dell’angolo bagnato, e la madre inizia a sbraitare che così non va, che devo aspettare di uscire per fare i miei bisogni e tante altre cose che non riesco a comprendere.

Il giorno successivo vengo portata in giardino, legata a una catena corta che mi lascia la possibilità di muovermi per pochi metri. Io piango e piango e piango. Dove sono mai capitata? Lasciatemi libera di spaziare nel vasto mondo, perché mi avete adottato se non avevate alcuna intenzione di amarmi?

Di tanto in tanto la bimba viene a trovarmi, a darmi un pezzo di pane, a coccolarmi con le sue morbide manine, ma la sera rientro nel tugurio che rappresenta la mia stanza da letto.

Sono furiosa e azzanno prima la sedia poi, quando questa è distrutta, il tavolo. Comincio dalle gambe e su, su fino al ripiano che porta ormai i segni delle mie unghie e dei miei denti. Cosa che, tuttavia, non mi calma affatto.

Il giorno successivo la madre, costatato il disastro, si mette le mani nei capelli, mi sbraita mille improperi e mi prende a calci e pugni.

“Che cosa vuoi da me? Mi hai sempre trattata come un impiastro, potevi lasciarmi dove mi hai trovata. E, siccome mi hai scelta, potevi trattarmi con più umanità. Che ti ho fatto di male?” le abbaio con vigore.

Non l’avessi mai fatto. Di nuovo il guinzaglio, l’auto, la gabbia, ma stavolta giungiamo in un posto dove non sono mai stata prima.

Un signore si avvicina e chiede alla madre: “In che posso esserle utile?”

“Ho portato questa cagna che ho trovato per strada abbandonata.”

“Nel nostro canile sono ricoverati centinaia di cani, non è che questa potrebbe tenerla lei, signora?”

“Oh, no, mi dispiace, io ho già altri due cani…”

Brutta bugiarda, tu avevi solo me e ora non mi vuoi più! Beh, sai che ti dico? Sono io che non voglio più te! Che me ne faccio di un simile essere che non è capace che di mentire e maltrattare dei poveri animali indifesi? Il canile non sarà poi così male, qui avrò se non altro compagnia!

Come mi sbagliavo!

Gli inservienti sono gentili, anzi amabili, ma i compagni di sventura sono terribilmente arrabbiati. Spesso sono azzannata, costretta a cedere la ciotola ai cani più forti e l’unica compagnia che ho, è quella di me stessa e di tanta fame.

Sono ormai finita, giovane e già preda di un abbrutimento totale. Nessuno mi sceglierà mai più in questo luogo orrendo. Da qui non si esce, ne sono certa.

Ho un occhio semichiuso da una zampata velenosa, sono piena di pulci che mi procurano un prurito insopportabile, ho sempre lo stomaco vuoto e vivo in un luogo che resta pulito solo pochi minuti dopo il passaggio degli inservienti.

Il veterinario che mi ospitava nel suo ambulatorio è venuto stamani a trovarmi e mi ha consolato: “Non preoccuparti, troverò qualcuno che ti voglia, ma stavolta deve essere per sempre. Pazienta ancora un po’, forse ho la famiglia adatta.”

Non lo sto neppure a sentire, tanto so che sono tutte fandonie per rincuorarmi.

Il tempo trascorre lento nella pigrizia dell’abbandono, finché un giorno l’amico veterinario torna a prendermi.

Allora non tutti gli umani sono inaffidabili, questo ha mantenuto la promessa!

Vengo portata in una clinica di bellezza dove mi lavano, mi spulciano, mi pettinano così che devo essere diventata una cagnetta molto bella. Vorrei avere uno specchio per rimirarmi, ma mi fido del viso sorridente del mio amico. Con il quale parto in auto fino a una destinazione che, se non sarà per la vita, metterà in serio pericolo il mio equilibrio mentale.

Giunti a destinazione, il veterinario mi presenta come una cagnolina molto esuberante a tre umani, due maschi e una femmina, che fanno molte domande su di me e mi sorridono. Io li osservo, immergo i miei occhi nei loro e trovo in fondo a quello sguardo una bontà che mi fa ben sperare. Allora mi avvento su di loro, li copro di baci e guaisco la mia immensa, incontenibile gioia.

Sono diventata Lola, ne ho combinate di cotte e di crude, ma non ho mai perduto l’amore che ho finalmente trovato in questa casa.

(dal libro "Animali, amici miei" uscito nel marzo 2010)