MA CHE VITA E' QUESTA?

 

ma che vita è questa

Vivo in una minuscola gabbia con tanti altri miei simili, anche se noi visoni siamo esseri solitari per tutto il tempo dell’anno, tranne che al momento dell’accoppiamento.

Nella nostra piccola prigione litighiamo spesso, ci azzanniamo sempre per il cibo che non è mai abbondante e soffriamo il freddo anche d’estate.

Ho chiesto a Giusy, un’anziana visoncina adibita alla riproduzione, il motivo.

“Gli umani sanno che le nostre pellicce si infoltiscono d’inverno, così mantengono negli allevamenti una temperatura molto bassa” mi ha spiegato.

Stamane hanno prelevato dalla gabbia sopra la nostra tutti i poverini che la abitavano e, davanti a noi, gli hanno infilato un filo metallico nell’ano e uno in bocca, poi hanno premuto un interruttore.

Non amo particolarmente i miei simili, ma le urla di dolore e il tremore che li ha scossi, mi hanno colpito profondamente.

Ora so che alla fine toccherà anche a me.

Un terrore gelido mi invade le membra. Che cosa posso fare? Come salvarmi da una fine così orrenda?

Mi rivolgo a Giusy: “Sono molto preoccupato e spaventato anche. Ho visto quello che gli aguzzini hanno fatto ai nostri simili. Esiste una qualche soluzione, eh Giusy?”

“Purtroppo no Bambino. Tutti voi avete lo stesso destino. Io vivo qui da due anni e ho notato che ogni otto/nove mesi i nostri simili sono uccisi – con l’elettricità come quelli di oggi o anche con il gas, per non rovinare le pellicce – e non è mai successo che qualcuno si sia salvato da questa crudeltà.”

“Ma perché lo fanno eh Giusy?”

“Semplice. I corpi senza vita sono spogliati delle pellicce che servono per confezionare capi di abbigliamento per gli umani, anzi per le umane.”

“Ma le umane devono proprio vestirsi con le nostre pelli?”

“Purtroppo non è che devono, è che vogliono” ha sentenziato la mia amica.

Mi sono ritirato in un angolo libero della gabbia e ho pensato a lungo, tra un accesso di terrore e l’altro.

Devo fare qualcosa per evitare una fine tanto orrenda, ma cosa?

Devo fuggire. Proverò a rosicchiare il filo di ferro della gabbia: non è molto robusto e mi sembra anche un po’ arrugginito.

Se i miei compagni di sventura mi aiutassero, forse ci riusciremmo. Però dobbiamo fare in modo che gli aguzzini non se ne accorgano.

Parlo con gli altri, ma non mi paiono molto disponibili.

“Se anche riuscissimo a fuggire, dove andremmo? Qui almeno abbiamo cibo tutti i giorni” mi risponde un compagno di gabbia.

“Conduciamo un’esistenza schifosa, tra poco ci toccherà una morte a dir poco dolorosa. Ma che vita è questa?” faccio presente.

“E là fuori che cosa pensi di trovare?” mi interroga un altro.

“Non lo so, non ci sono mai stato. Però Giusy mi ha raccontato che fuori c’è il sole che scalda, corsi d’acqua che dissetano, dove vivono le nostre prede preferite, prati verdi su cui correre e pochi predatori, perché anche loro quasi estinti.”

“Queste sono favole! Non dare retta a Giusy, racconta solo frottole.”

“Comunque sia” insisto, “fuori sarà sempre meglio che chiusi in queste gabbie striminzite dove non c’è neppure spazio per coricarsi.”

Il silenzio cala. Che abbia ottenuto un qualche risultato? Come quello, per esempio, di far pensare i miei compagni?

Lascio che le cose vadano come devono andare, ma domani saranno obbligati a darmi una risposta.

Dormo male con incubi di tutti i generi e, finalmente, arriva l’alba.

Un compagno si avvicina e: “Bambino, io ti aiuterò. Gli altri devono ancora decidere, ma, se non sono proprio del tutto instupiditi, dovranno essere d’accordo con noi. Vieni, cominciamo. Io proporrei di farlo sul retro della gabbia, così gli umani non si accorgeranno di nulla.”

“Sarebbe meglio attendere la sera: ci sono meno controlli e noi siamo più attivi.”

“D’accordo. Chissà che anche gli altri si decidano nel frattempo.”

E arriva la sera. Me ne accorgo perché le luci si sono accese. Dopo la razione serale di cibo, gli umani se ne vanno, chiudendo tutto per bene (sento le chiavi girare nelle serrature).

Siamo in quattro ora a tentare di rosicchiare il filo che, purtroppo, è molto più resistente di quanto ci aspettassimo.

Oggi è la seconda notte che lavoriamo e qualche risultato lo abbiamo avuto.

Il mattino ci coglie di sorpresa perché un umano ha preso noi cinque e ci ha portati in una stanza che inizia a riempirsi di un gas asfissiante.

Non riusciamo più a respirare, sembra che i nostri polmoni stiano scoppiando con dolori atroci, finché, d’improvviso, il gas cessa di invadere la stanza e la porta si apre.

“Non vedi quanto sono piccoli questi?” dice un umano a un altro. “Ti avevo detto di prendere quelli di otto mesi, questi ne hanno solo sei. È molto che li stavi gasando?”

“No, avevo cominciato da poco…”

“Meno male. Prendili e portali all’aperto, che respirino un po’ di ossigeno, non vorrei che schiattassero prima del tempo.”

Un umano ci agguanta per la pancia e ci porta fuori.

Visione meravigliosa!

Aria fresca, vento lieve che ci scompiglia le pellicce, ma per uno dei miei compagni è troppo tardi: è morto.

L’umano lo butta tra le immondizie, poi lo va a riprendere – non so perché – ma nel fare questo allenta un po’ la presa su noi quattro che gli scivoliamo di mano e prendiamo a correre a perdifiato.

Questa sì che è vita!

Ognuno di noi va per la sua strada. Io prendo un viottolo che mi porta dritto a un corso d’acqua.

Mi ci butto e nuoto, nuoto, nuoto fino a non poterne più.

Allora mi immergo e mi nutro di un paio di pesciolini inesperti – come me del resto.

Sono felice: ho sfiorato la morte e ne sono uscito vivo; ho ottenuto la libertà di cui forse morirò, ma vuoi mettere una morte naturale in confronto a una come quella inferta ai miei compagni dagli aguzzini?

(dal libro La fattoria dei sogni edito in luglio 2015)