KAKO IL MACACO

kako

Mi hanno catturato a tradimento: un bambino mi si è avvicinato e mi ha offerto una banana. Appena io ho allungato la mano per prenderla, l’uomo che stava con lui mi ha infilato un collare e mi ha sollevato fino quasi a strozzarmi.

Caricato in auto, chiuso in un cartone con solo qualche buco per l’aria, sono stato trasportato non so dove.

Piangevo la lontananza dalla mia mamma e dai miei amici con i quali giocavo tutto il giorno (ho solo due anni).

Dopo essere stato rinchiuso in una gabbietta molto piccola – faticavo a girarmi, io che ho bisogno di movimento perché sono giovane e pieno di vitalità – per almeno una settimana, sono stato portato in un capannone e immesso in una gabbia più grande con altri cinque miei simili.

Per un po’ ci siamo studiati, poi, siccome nessuno di noi aveva cattive intenzioni, abbiamo cominciato a parlare, raccontandoci le nostre storie, tutte molto tristi.

Uno di loro era stato addirittura strappato dal dorso della madre alla quale avevano sparato.

La notte è trascorsa sulle nostre malinconie e sulla preoccupazione per il futuro.

“Voi sapete che cosa ci aspetta?” ho chiesto il mattino successivo.

“No, nessuno di noi si è mai trovato in una situazione simile, vero ragazzi?”

“Verissimo. Però laggiù c’è una bertuccia anziana. Forse, se chiediamo a lei, ci saprà dare una risposta.”

Così ci siamo messi a urlare per attirare la sua attenzione. Dopo parecchi minuti – forse la poverina è sorda a causa dell’età – ci ha chiesto che cosa volevamo.

Alle nostre domande ha scosso la testa, i suoi occhi si sono intristiti e: “Volete proprio sapere che cosa vi succederà fra non molto?”

“Sì,” abbiamo urlato in coro.

“Bene. Tutti voi sarete inviati in laboratori privati o universitari. Faranno su di voi esperimenti, spesso molto dolorosi e senza anestesia. Starete mesi rinchiusi in gabbie piccole e scomode o addirittura immobilizzati in apparecchi di contenzione che tenderanno i vostri muscoli o che schiacceranno le vostre membra. Vi saranno spezzate le braccia o le gambe o la spina dorsale per vedere quanto tempo impiegherete a guarire. Vi saranno impiantate viti nella congiuntiva e altre diavolerie – mi pare che si chiamino elettrodi – nel cervello per controllare le vostre reazioni. Vi saranno somministrati veleni, per vedere quanto impiegherete a morire. Sarete separati dai vostri simili e l’unica compagnia che vi sarà concessa sarà il dolore. Vi basta o devo proseguire?”

Siamo ammutoliti. Nessuno di noi trova una parola che esprima il terrore e l’angoscia per quelle immagini che si sono formate nelle nostre menti.

Ci guardiamo, non sappiamo cosa fare, ma leggo negli occhi dei miei compagni una domanda che giro alla bertuccia.

“Ma esiste una scappatoia? Possiamo fare qualcosa per evitare tutto questo?”

Ride la nostra amica, un riso amaro come la compassione che, vedo bene, prova per noi.

“No cari. Non ci sono vie di uscita. Questo è un percorso a senso unico.”

“Ma tu,” chiedo ancora, “come sai tutto questo?”

“L’ho vissuto sulla mia pelle. Vedi il mio braccio sinistro? Mi è stato rotto e non è più guarito perché mi hanno somministrato un medicinale che ha impedito la calcificazione dell’osso. Vedi i miei occhi? Sono quasi cieca perché hanno testato su di me un collirio per il glaucoma – non chiedermi cos’è perché non lo so. Vedi la mia coda? Non esiste più perché mi è stata tagliata nella convinzione che potesse ricrescere. Inoltre, sono quasi sorda e ho perso la memoria delle cose successe nella mia gioventù a causa di esperimenti fatti sul mio cervello. Dopo di tutto quello che ho passato, sono stata riportata in questo luogo sinistro e, se qualche laboratorio richiederà una scimmia anziana, dovrò ripartire e sottopormi a tutto quello che gli umani decideranno. Spero solo di morire prima che succeda. Non ce la farei a sopportare di nuovo tutto quello che ho già subito!”

“Noi siamo giovani,” sbotta un mio compagno, “e non abbiamo alcuna voglia di percorrere il tuo stesso cammino. Sei certa che non ci sia un modo per fuggire o per evitare le sofferenze?”

“Se avessi trovato un modo, ne avrei approfittato anch’io, ma vi assicuro che non c’è. Siamo inermi di fronte alla malvagità degli esseri umani che ci chiamano bestie, mentre le vere bestie sono loro. Mi piacciono solo i bambini perché hanno di solito simpatia per gli animali. Peccato che poi crescano! A ogni buon conto, stasera vi prometto che penserò a come aiutarvi: siete tanto giovani, mi dispiace che siate in queste condizioni.”

“Grazie nonna,” sussurro con voce roca.

L’indomani, di prima mattina, la vecchia bertuccia se ne va, salutandoci con una raccomandazione: “Rifiutate il cibo, non potranno obbligarvi a mangiare. La morte è più dolce delle torture che vi infliggerebbero. Io farò così. Non riuscirei proprio a sopportare altre torture, soprattutto ora che so cosa mi aspetta.”

“Questo significa che l’unica via di uscita è la morte?” chiedo ai miei compagni con un tremolio nella voce.

“Sembra proprio di sì!”

“Ma io sono troppo giovane per lasciarmi morire. Voglio vivere e giocare e saltare, voglio inseguire ed essere inseguito, voglio giocare e mangiare ciò che amo…”

“Tutti vogliamo le stesse cose, che credi! Ma, per averle, occorre pensare a una soluzione, e in fretta anche, prima che il calvario inizi,” mi rimprovera un compagno di prigionia.

Ma ormai è tardi, sono già qui i nostri aguzzini, aprono la gabbia e tentato di estrarci. Noi ci ribelliamo, urlando di terrore. È una lotta impari perché dei bastoni metallici forniti di collare ci catturano e ci trasferiscono ognuno in una minuscola gabbia.

Io giungo in un laboratorio, vengo coricato prono su un lettino, al quale sono legato da tre cinghie.

Che cosa mi succederà ora?

La risposta arriva fin troppo presto.

Un trapano inizia a ronzare e a perforarmi il cranio.

Urlo, urlo e urlo, il dolore è insopportabile non tanto quando viene perforato l’osso, quanto quando il trapano tocca il cervello.

Poi tutto tace, ma mi infilano una nuova “cosa” nel buco appena praticato nel mio cranio, mentre il sangue che esce dalla ferita mi scende sul muso, penetra negli occhi e arriva alla bocca dove lo lecco: ho sete.

Forse aveva ragione la vecchia bertuccia: meglio rifiutare il cibo – che a dir il vero non ho ancora visto da quando sono in questa struttura – che sopportare torture come queste.

(dal libro La fattoria dei sogni edito in luglio 2015)