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UN INCONTRO IMPORTATNTE

  • Categoria: Racconti
  • Pubblicato: Mercoledì, 27 Gennaio 2021 00:00
  • Scritto da Maria Grazia Sereni

“Guarda quella gallina, mamma. È strana ma non riesco a capire perché; e poi è anche molto vecchia, non ti pare?” mi propone il mio piccolo Orrico.

In effetti, la gallina che sta faticosamente avvicinandosi a noi è zoppa, le manca la punta del becco, è priva di quasi tutte le piume e ha l’ala destra che le pende tristemente a lato.

“Buongiorno,” la saluto quando è giunta a pochi passi da noi. “Che cosa ti è successo? Sei conciata in un modo!”

“Salve” tossisce la poverina. “Avete qualcosa da mangiare, sono affamata!”

“Qui intorno ci sono dei bei vermi grassi e anche dei chicchi di mais molto appetitosi: hanno appena terminato di trebbiare.”

“Non avete qualcosa di già pronto, tipo mangime? Mi hanno tagliato il becco e non riesco più a procurarmi il cibo normalmente.”

“Mi spiace, fino a stasera non ci porteranno il mangime. Però posso estrarre qualche verme io per te. Ti va?”

“Molto gentile. Spero di riuscire a mangiarlo. Grazie!”

Cerco e trovo un paio di vermetti rosa che porgo alla nuova venuta e che spariscono in un battibaleno.

Mio figlio e io osserviamo la nostra amica cercare di inghiottire qualche chicco di mais che le ho procurato, ma la fatica è immensa e la poverina, subito dopo, stramazza a terra come morta.

Mi dispiace, mi dispiace molto per lei, ma non so proprio che cosa fare per aiutarla.

Trascorre a terra qualche minuto la straniera e quindi si rimette in piedi.

“Mi chiamo Bianca e voi?” si riprende.

“Io sono Rosina e questo è mio figlio Orrico. Siamo molto curiosi di conoscere la tua storia, sempre se te la senti di raccontarcela.”

“Siete stati molto gentili con me, e il minimo che posso fare è narrarvi le mie traversie. Però vi chiedo di pazientare fino a stasera, dopo che mi sarò nutrita del mangime. Da quando sono nata, non ho mangiato che quello, e tutto il resto per me è un problema. Ora ditemi: dove posso trovare un posto tranquillo per riposarmi? Sono molto stanca.”

“Vieni nel nostro pollaio: di giorno è vuoto.”

“Grazie,” sussurra Bianca prima di seguirci.

Giunge finalmente la sera con le ciotole colme di pastone di mais. Allora corro a svegliare Bianca per farla partecipare al pasto.

Quando arriva all’altezza delle ciotole, le altre galline si scostano inorridite e chiedono chiocciando: “Ma questa chi è? Da dove viene?”

“Tranquille,” rispondo con un lampo di genio, “è una mia vecchia parente che è venuta a trovarmi per conoscere Orrico.”

Brontolando, le mie compagne le lasciano allora un po’ di spazio per servirsi.

Quando la folla si è diradata, Orrico e io ci avviciniamo a Bianca e le ricordiamo la sua promessa.

Lei sospira e inizia: “Sono una gallina ovaiola, nata in un allevamento intensivo. Sapete che cosa sono gli allevamenti intensivi?”

Al nostro cenno di diniego, la nostra amica prosegue: “Siete fortunati perché si tratta di veri e propri lager. Appena nata vidi i miei fratelli maschi buttati in un trituratore e macinati vivi: ho ancora nelle orecchie le loro urla di dolore. Da piccola ero tenuta, insieme a tanti altri miei simili, in un capannone dove c’era sempre la luce accesa: dovevamo nutrirci in continuazione per iniziare al più presto a sfornare uova. Quando iniziai il mio lavoro, fui portata in un luogo che odorava di terrore e di morte. Là mi misero il becco in una macchina che mi tranciò di netto la punta…”

“E perché hanno fatto una cosa tanto orribile?” chiede il mio piccolo.

“Subito non seppi spiegarmelo, lo capii dopo, quando fui sistemata in una gabbia molto stretta con altre sei galline, tutte nelle mie stesse condizioni. Il becco doleva a tutte quante e quel dolore sordo non ci lasciava un attimo di tregua. Inoltre non avevamo spazio né per muoverci né per aprire le ali: un vero inferno!”

“Non ho ancora capito perché ti hanno tagliato il becco,” insiste Orrico.

“Semplice. Imprigionate, ammassate e senza alcuna possibilità di movimento avevamo sempre voglia di aggredirci reciprocamente: eravamo convinte che se una di noi fosse morta, le altre avrebbero avuto più spazio. Senza la punta del becco, ogni aggressione diventava incruenta. È chiaro ora?”

“Ma perché vi tenevano nelle gabbie?” domando.

“Innanzitutto perché così potevano raccogliere le uova che cadevano in un semitubo raccoglitore senza andarle a cercare in giro per il capannone e poi per lo spazio.”

“Chi erano quelli che vi facevano questo?” domanda quell’ingenuo di mio figlio.

“Gli umani caro,” sorrido io.

“Ma i nostri umani non sono così,” si inalbera Orrico.

“Certo non sono tutti uguali, come del resto anche tra di noi esistono molte differenze, non trovi?” sentenzio.

“Ma tra di noi non ci sono esseri tanto malvagi!” esclama il mio pulcino, “ma ora facciamo proseguire Bianca: la storia è molto interessante!”

“Grazie. Trascorsi in quelle condizioni diversi mesi, mesi in cui le mie penne sparirono lasciandomi quasi nuda, in cui le mie zampe furono dapprima ferite dalla rete metallica della gabbia e quindi la inglobarono, impedendomi così ogni tipo di movimento. Tranne quello di mangiare per cui dovevo solo allungare il collo.”

“E l’ala? Come hai fatto a ferirtela?” non riesce a trattenersi dal chiedere Orrico.

“Ora arrivo anche a quello. Volevo solo raccontarvi come mi sentivo. Mi pareva che quella non fosse vita: mi doleva il becco, mi dolevano le zampe, mi doleva l’ano a furia di sfornare uova e, soprattutto, non riuscivo mai a riposare un attimo con quella luce artificiale che ottenebrava la mia mente. Poi, un giorno, quando ormai non riuscivo quasi più a fornire uova, fui prelevata insieme alle mie compagne di sventura, trasferita in una gabbia di legno insieme a tante altre poverine come me e caricata su un camion. Numerose gabbie come le nostre occupavano tutto lo spazio che era invaso dal nostro chiocciare impaurito. Non sapevamo che cosa ci sarebbe successo, non ci avevano dato da mangiare né da bere, eravamo ancora più ammassate che nella nostra abitazione precedente, insomma il cambiamento che ognuna di noi tanto sognava era avvenuto ma in peggio. A un dato momento sentimmo un rumore assordante: il camion si rovesciò su un fianco e le gabbie furono scaraventare fuori. La mia si ruppe, io e le mie compagne fummo sbalzate su un prato, dove parecchi umani riuscirono a catturarci. Io, nell’incidente, mi ero fratturata l’ala destra, così fui scartata. Allora, zoppicando, mi allontanai un poco, nascondendomi tra le foglie di un cespuglio poco distante. Da lì sentii che gli umani del camion litigavano con quelli che avevano catturato le galline libere perché, affermavano, dovevano consegnarle al macello e, essendo contate, non ne poteva mancare nessuna. Stetti molto attenta a non farmi vedere e uscii dal mio rifugio quando la situazione non presentò più alcun rischio, essendo il camion partito per la sua destinazione. Allora, nascondendomi alla vista di tutti e attenta a ogni rumore sospetto, mi incamminai. Due giorni sono trascorsi e ora eccomi qui.”

“Che bella storia!” esclama Orrico rapito. “Me ne racconteresti un’altra?”

“Ma tesoro,” intervengo io, “questa non è una storia, tutto quello che Bianca ha raccontato, è proprio avvenuto.”

Orrico guarda la nostra nuova amica, le va vicino e le concede: “Adesso puoi restare con noi. Vedrai che ti rimetterai in salute.”

“Grazie caro,” sussurra Bianca, “ma vorrei sapere alcune cose. Perché voi siete liberi? E perché vi nutrono senza pretendere nulla? Siete forse ingrassati per essere mangiati?”

“No, Bianca. Questo è un rifugio per animali di tutti i tipi. Avrai notato che ci sono cavalli, oche, capre, pecore, vitelli, asini, cani, gatti, maiali e così via. Qui noi viviamo le nostre vite naturali e ce ne andiamo quando giunge la nostra ora. Sono certa che, se ti fermerai, ti troverai molto bene. Anzi, è meglio che tu ti faccia notare dagli umani: sicuramente loro sapranno come curarti.”

La nostra amica starnazza contenta: “Che sia arrivato anche per me un po’ di sollievo?” sorride con il suo mezzo becco.

(dal libro La fattoria dei sogni edito in luglio 2015)