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LA SFORTUNA DI ESSERE NERI

  • Categoria: Racconti
  • Pubblicato: Giovedì, 02 Marzo 2017 00:00
  • Scritto da ADMIN

 

la sfortuna di essere nero

Camminava guardingo Sammy, baffi frementi e occhi socchiusi per il sole che dardeggiava inclemente sul suo dorso nero.

Avanti e avanti, senza una meta, il cuore spezzato dall’abbandono, dal tradimento di coloro che lui aveva eletto sua famiglia.

La stanchezza, la sete, la fame ebbero infine il sopravvento, e il nostro micio si accucciò stremato nell’erba sul ciglio di una strada.

Piangeva in silenzio Sammy, alla maniera dei gatti, mostrando al mondo un musetto indifferente.

Accanto a lui sfrecciavano senza interruzione decine di auto, ma nessuna aveva l’odore familiare della sua.

Dopo essersi riposato, Sammy si accinse a un’accurata pulizia del mantello.

“Voglio essere nella forma migliore, quando i miei torneranno a prendermi…” si illuse il poverino.

D’improvviso, dall’altra parte della strada, un passerotto atterrò nell’erba e cominciò a becchettare qualcosa di prelibato.

Sammy irrigidì il corpo, socchiuse la bocca dalla quale iniziarono a uscire flebili suoni metallici che rivelavano tutta la sua tensione. Stette in quella posizione per qualche minuto, poi si lanciò attraverso il nastro d’asfalto per raggiungere quella preda appetitosa che gli avrebbe di certo calmato la fame.

Un’auto sopraggiunse veloce. Il guidatore vide un gatto nero attraversargli la strada. Nella sua mente baluginarono alcune informazioni: gatto nero = sfortuna; far passare un altro veicolo, poi si può proseguire. Ormai però il guidatore non poteva più fermarsi, così, anziché sterzare, decise di investire con rabbia quel corpicino colpevole solo di essere nero!

Sammy sentì una fitta atroce alle zampe posteriori che non lo sorressero più, tuttavia riuscì a trascinarsi sul ciglio della strada dove giacque inebetito dal dolore.

Passavano i minuti, o forse le ore, senza che anima viva si interessasse ai suoi problemi.

Il nostro amico aveva chiuso gli occhi e si era abbandonato alle onde di sofferenza fisica che percorrevano il suo bacino.

Nello stato di semi incoscienza in cui era piombato, a un tratto udì accanto a sé delle voci, poi si sentì sollevare con delicatezza e adagiare in un cartone. Qualche goccia di latte gli fu introdotta con una siringa nella bocca riarsa. Sammy, un po’ rianimato, aprì gli occhi e vide due ragazze che lo osservavano con espressione preoccupata. Soffiò, non seppe mai perché, ma prese quell’abitudine ogni volta che le ragazze si avvicinavano per somministrargli del latte o qualche altro intruglio.

Venne la notte, notte chiara di luglio con miriadi di stelle affacciate su quella tragedia.

Il cartone restò all’aperto, esposto a ogni curiosità. Per primo si affacciò un altro micio: Sammy soffiò. Poi sopraggiunse un cagnolino: Sammy ringhiò. Lucciole sfiorarono le sue orecchie: Sammy borbottò. Effimere carezzarono le sue ferite: Sammy brontolò.

L’indomani tutto ricominciò daccapo. Le ragazze si avvicinavano, lo nutrivano con un po’ di latte e se ne andavano per i fatti loro. Il pomeriggio stava già scemando nella sera, quando un uomo si avvicinò al cartone, lo sollevò, lo caricò in auto e partì. Sammy era terrorizzato: innanzitutto non sapeva che cosa gli sarebbe successo, inoltre l’auto lo faceva sentire malissimo e, se avesse avuto qualcosa di sostanzioso nello stomaco, probabilmente ne avrebbe fatto omaggio all’autista.

Di lì a poco quella tortura terminò. Non fece in tempo a godersi la riacquistata calma, quando iniziò un nuovo supplizio: visita veterinaria, radiografie, anestesia, intervento chirurgico che lo lasciò spossato e dolorante.

Ma le sue pene non terminarono qui. Per un intero mese gli furono praticate iniezioni, fatte medicazioni e fu soggetto a varie manipolazioni, il tutto in una gabbia nella quale era difficile muoversi sia a causa dello spazio limitato sia delle sue condizioni fisiche.

Poi un giorno finalmente la porta della gabbia si aprì, e Sammy assaporò una specie di libertà vigilata: una piccola stanza tutta per sé dotata di infermiera.

Ogni giorno Cecilia – questo era il nome dell’infermiera – lo medicava, gli portava il cibo, puliva e rassettava il suo “covo” e, in cambio, non otteneva altro che ringhi e sbuffi esasperati.

Cecilia aveva molta pazienza: restava nella stanza finché la fame non spingeva Sammy a uscire guardingo dalla sua tana – un trasportino senza griglia di chiusura –. Non gli si avvicinò mai, ma attese che fosse lui a fare il primo passo.

Accadde dopo una ventina di giorni. Sammy mangiò, al termine del pasto si accostò a Cecilia e sfiorò le sue gambe, poi corse a nascondersi. Da quel giorno il coraggio del nostro micio crebbe e, ben presto, la nuova mammy fu autorizzata a carezzargli il dorso.

Trascorso un altro mese, Sammy fu tolto dall’infermeria e introdotto in casa dove trovò molti altri gatti.

Con gli umani il micio era sempre un po’ titubante: non riusciva a fidarsi del tutto! Tuttavia, dopo un anno di cure amorevoli da parte di Cecilia e di suo marito, il nostro eroe si convinse che: “Gli uomini, pur avendo il medesimo aspetto fisico, hanno caratteri e sensibilità molto differenti… per mia fortuna!”

(dal libro "Animali, amici miei!" pubblicato in marzo 2010)