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BENNY IL RINOCERONTE

  • Categoria: Racconti
  • Pubblicato: Mercoledì, 16 Dicembre 2020 00:00
  • Scritto da Maria Grazia Sereni

rinoceronte

“Che caldo oggi! Non pare anche a te mia cara?”

“Hai ragione Benny. Non so dove ripararmi. Che cosa mi consigli?”

“È un bel problema! Cerchiamo di stare in acqua il più a lungo possibile, forse così ci sentiremo meglio. Certo non è la stessa cosa di quando eravamo in Africa, nel nostro ambiente naturale. Ne ho una gran nostalgia!”

“A chi lo dici! Quando ci penso, mi invade una furia che incornerei tutti, umani e cose!”

“Via, via mia cara, non essere tanto irritabile. Dobbiamo starcene tranquilli.”

“E perché? Ci tengono in uno spazio che sarebbe a malapena sufficiente per un topo, ci nutrono con cibi che fanno schifo (senza contare che non sono mai freschi), non abbiamo un filo d’erba su cui camminare, non c’è uno specchio d’acqua decente (a parte questa pozzanghera maleodorante), non c’è un briciolo di fango in cui rotolarci, non sappiamo cosa fare in tutto il giorno. Siamo imprigionati dietro queste sbarre con un sacco di umani che vengono a vederci, esclamando di tanto in tanto “che carini!” e questa secondo te sarebbe una vita che induce alla tranquillità?”

“Hai ragione mia cara. Però almeno stiamo insieme. Pensa se fossimo soli: non avremmo neppure la possibilità di comunicare.”

Un’alzata di spalle della mia compagna è la sua unica risposta.

Lei è molto giovane (ha solo quattro anni) e piena di furore. È arrivata solo lo scorso anno e non si è ancora adattata alla vita dello zoo. Io invece ho già dieci anni e sono abbastanza tranquillo.

I primi tempi, ricordo, non mi davo pace. Ero anch’io furibondo per aver perduto la libertà e per essere stato imprigionato in questo luogo desolato.

Ne ho combinate di tutti i colori, una volta riuscii persino a ferire un umano che aveva introdotto un braccio tra le sbarre della mia gabbia (lo feci con molta soddisfazione). Quella volta ricordo di essere stato picchiato fino allo sfinimento: restai, infatti, disteso al suolo per un paio di giorni prima di riprendermi. Da allora cerco di rimangiarmi la rabbia tutte le volte che sta per uscire.

Questo, tuttavia, mi ha indotto a non avere una gran voglia di vivere. Infatti, dopo quell’episodio, non riuscivo più a mangiare e mi aggiravo come un disperato da un capo all’altro della prigione.

Quello che mi salvò fu l’arrivo della mia compagna.

Le ho chiesto più volte di raccontarmi la storia della sua cattura, ma lei finora si è rifiutata. Ora provo a chiederglielo ancora: “Vieni mia cara, stenditi qui accanto a me e raccontami come sei stata catturata, sempre se ne hai voglia naturalmente.”

“Una gran voglia no, non ce l’ho, però, se proprio insisti…”

“Lo sai che mi farebbe piacere starti a sentire: racconti così bene tu!”

“Beh allora… sono nata quattro anni fa in un parco del Sud Africa. I miei genitori, che si amavano moltissimo e stavano sempre insieme – mi raccontarono che in quel parco eravamo protetti perché c’era il divieto di cacciare tutte le specie che vi vivevano. Così io crebbi per due anni succhiando il latte di mamma e sotto lo sguardo attento di papà.

Poi, un giorno, successe il finimondo.

Era già iniziato a imbrunire, quando sentimmo il rumore di diverse jeep in avvicinamento. Non ci preoccupammo più di tanto perché le guardie che pattugliavano il parco si muovevano sempre con quei veicoli. Restammo così a guardare incuriositi.

Fu un errore madornale: quando i veicoli furono molto vicini alla nostra famiglia, illuminarono la scena a giorno. Noi non sapevamo che cosa fare. Mio padre si mise davanti a me e a mia madre per proteggerci e fu il primo a essere abbattuto, poi fu la volta di mia madre. Io allora mi lanciai con tutto il furore che provavo verso i malvagi che, sorpresi, sospesero per un attimo il fuoco. Riuscii a ferirne uno, ma quello che gli stava accanto lo mancai. Lui invece mi sparò e mi prese a una zampa. Caddi e giacqui al suolo come morta. Sentivo un bruciore tremendo alla ferita, mentre il cuore traboccava di dolore per la morte dei miei genitori ma anche di rabbia verso chi aveva distrutto la mia famiglia.

All’umano ferito furono prestate le prime cure dai suoi compagni che poi si diressero verso i miei genitori ai quali tagliarono i corni. A quella vista tentai di reagire alzandomi in piedi e cercando di incornare i miei nemici. Fu un nuovo disgraziato errore perché così si accorsero che ero ancora viva.

Mi avvolsero in una rete e mi caricarono su una jeep, proprio accanto all’umano ferito. Io, imbrigliata com’ero, non riuscivo a trovare un modo per ferirlo di nuovo – anche se i miei corni erano ancora molto deboli e corti – o danneggiarlo in qualche altra maniera.

Fortunatamente arrivammo in un accampamento, dove fui scaricata e rinchiusa in una capanna.

La gamba ferita mi doleva molto, si era gonfiata e non mi reggeva quando tentavo di alzarmi.

Poi venne un umano che mi aprì la bocca, mi misurò con un metro e mi disinfettò la piaga. Quando se ne andò, seguito dal mio sguardo assassino, lo sentii parlare con i suoi compari: - É un esemplare molto giovane, avrà al massimo tre anni, quindi io penso sia meglio curarlo per venderlo poi a uno zoo. Gli altri furono d’accordo, e così iniziò la mia sventura. Fui chiusa in un grosso baule con alcuni buchi per la respirazione e trasportata per non so quanti giorni. Soffrii la sete, la fame e il dolore alla zampa che, di tanto in tanto, mi veniva disinfettata.

Dopo diverso tempo arrivai in un cosiddetto zoo. Era piccolo, non c’erano altri rinoceronti e neppure una pozzanghera d’acqua in cui sguazzare. La mia zampa era nel frattempo guarita, mentre io ero sempre più furibonda: non permettevo neppure agli inservienti di entrare nella gabbia per portare il cibo, me lo dovevano spingere dentro tra le sbarre e con molta attenzione anche, perché in quel periodo caricavo tutto ciò che si muoveva davanti ai miei occhi.

Io non so come sia successo a te, per me è stato un disastro: vedere i miei genitori morti ai quali furono segati i corni, mi ha colpita di più delle ferite che ho subito poi.

Stetti in quel posto a lungo, poi fui ceduta a questo zoo dopo che un umano – il primo che vidi con bontà negli occhi – dichiarò che era impossibile per me stare in un posto come quello. Avevo, disse, bisogno di un luogo che ricordasse almeno un po’ il mio ambiente naturale. Ed eccomi qui.”

“Mia cara! Che atrocità hai dovuto subire così giovane! Ma ora sei qui con me, e dobbiamo cercare di godere della nostra compagnia.”

“Non c’è nulla da godere. Io voglio tornare nel mio parco, non voglio stare in questa prigione, dove ogni giorno rimpiango di essere sopravvissuta ai miei genitori. Sì, è vero, tu sei una consolazione, ma, pensa, tutta una vita – per me almeno altri venti o trent’anni – in queste condizioni. Mi sembra di impazzire.”

“Ma che cosa vorresti fare? Non ci sono altre soluzioni. Credi che io sia soddisfatto di questo stato di cose? Credi che non sogni la mia Africa? Credi che non vorrei correre sull’erba delle mie praterie? Crogiolarmi nel fango, immergermi in acque pure e brucare i miei cardi preferiti? Oh ti prego, non farmi parlare, altrimenti mi butto contro le sbarre della nostra gabbia e spacco tutto.”

“Facciamolo, dai, spacchiamo tutto, usciamo da qui, stanotte, vuoi?”

Ci penso un po’. Non è una cattiva idea. È vero, potremmo ferirci, ma assaporare per qualche attimo ancora un po’ di libertà sarebbe magnifico!

“Non so, non mi pare una buona idea…”

“Allora Benny, se tu non hai coraggio, lo farò da sola. Anche la morte sarebbe meglio di questa condizione!”

(dal libro La fattoria dei sogni edito in luglio 2015)